Capire Mantegna, gloria e crisi del pittore che coprì di carne le sculture
Formatosi alla bottega dello Squarcione – il suo maestro e padre adottivo fu pittore e collezionista di copie od originali delle statue antiche – Mantegna, artista della seconda generazione rinascimentale – lasciando a Masaccio e al suo entourage, nonchè a Donatello, la supremazia del primo periodo – non riuscì mai a distaccarsi dalla monumentalità di pietra che aveva importato nei suoi dipinti. Per lui il modello dell’antichità non passava attraverso gli esempi della pittura, ma dai volumi plastici della scultura, che veniva ripresa nei dipinti e coperta, sorprendentemente di pelle. La sua attività formativa fu quindi trascorsa, come rendono evidenti le sue prove pittoriche, attraverso copie e studi dei volti e dei corpi delle statue alle quali, poi, attraverso il colore dava un anelito di vita. E se ciò fu considerato, nel pieno Quattrocento una novità importante e uno stile vincente, poichè realizzato in stretto raccordo con l’antico, i suoi modelli trionfali, cosmici, olimpici distanti dal mondo come divinità, entrarono in crisi sulle nuove strade che avevano preso la pittura veneziana e tosco-romana.
Nello splendido isolamento di Mantova – nonostante la vicinanza a Giovanni Bellini, suo cognato, per il quale era stato un punto di riferimento, in una prima fase, per un’analoga visione monumentale dei corpi, attutita e umanizzata, comunque, dalla verità dei paesaggi retrostanti, che poi assunse, in Giambellino appunto, le caratteristiche di un naturalismo pieno di grazia, alla costante ricerca della “vera carne” – Mantegna non accettò o non ritenne confacente al proprio linguaggio di augusta retorica classicista, l’irruzione dei modi del vero nella pittura. E ciò mentre, a poco più di cento chilometri di distanza a Milano, Leonardo imponeva una visione nuova della pittura che, per quanto dotata di una nobiltà delle figure, cercava e trovava il punto di dimostrazione dell’umanità delle persone effigiate. Nè si rinnovò ai modelli del cognato veneto, dai quali sorsero Giorgione e Tiziano. E neppure alla grazie supreme della linea che avrebbe portato da Perugino a Raffaello. La crisi del celebratissimo pittore di corte mantovano fu evidentemente sottolineata da Isabella d’Este, che ebbe modo di lamentarsi dell’anziano artista, incapace, a suo giudizio, di renderle omaggio con un ritratto morbidamente veritiero che non portasse in sé il massiccio volume delle statue. Non per nulla, Isabella cercò un pittore nuovo, aggiornato,per il ritratto agognato, che sapesse dar forma sensuale alla bellezza muliebre. Provò con Leonardo – che vergò il noto disegno di profilo, senza che passasse poi, da quanto sappiamo, al dipinto finito – o a Giovanni Santi, il padre di Raffaello Sanzio.
Alla fine della sua lunga carriera, Mantegna è quasi un sopravvissuto. Quel 1506 nel quale lascia questo mondo dopo più di cinquant’anni passati al servizio dei Gonzaga di Mantova, è un anno nel quale le premesse del lungo Quattrocento hanno già dato i primi frutti e la “cresta sottile” del Rinascimento pieno e finale, il crogiolo d’arte che a Roma sforna i capolavori di Michelangelo e Raffaello, è lì, alle porte, già incubato nella sua culla naturale, Firenze, tra i muri di Palazzo Vecchio nella consumata e inconclusa tenzone tra il Buonarroti e Leonardo alle prese con le storiche battaglie di Cascina e Anghiari. Mantegna, al contrario, defilato ormai e preziosissimo, come un cammeo inciso nell’onice antico, solo un po’ ammorbidito (e per questo anche un po’ sfibrato rispetto alla sua solita robustezza), dura a se stesso in quel sogno che l’aveva acceso d’amore per le cose classiche e, soprattutto, per quell’aura monumentale e immortale che agli occhi suoi poteva ancora rintracciarsi integra, anche se mutila, nelle statue antiche e in quella colossale – vagheggiata e ideale, come si vede impressa sulle pareti della “Camera picta” di Castel San Giorgio – della Roma di un impero antico e mai disgregato. Incise nella pietra, forse addirittura pietre dipinte, le sue figure, fin dagli affreschi (oggi distrutti) della cappella Ovetari agli Eremitani di Padova, quando con Niccolò Pizzolo s’ingegna a fare ‘alla moderna’ di fronte ai grandi vecchi della maniera gotica – Giovanni d’Alemagna e Antonio Vivarini – torreggiano sopra alle cose in quella sorta di primazia della forma umana qui non solo teorica ma praticata a forza di studio e di prospettiva, spericolata quest’ultima più che in altri più timidi interpreti delle novità fiorentine.
Novità che, come un sasso nella piccionaia, aveva portato a Padova quell’altro geniaccio di fiorentino, Donatello, quando sull’altare del Santo piazza i suoi bronzi monumentali che a Mantegna danno l’appiglio visivo per fare altrettanto, ma in pittura, nella sua pala per San Zeno a Verona dove i manichini del polittico di San Luca per Santa Giustina a Padova (ora a Milano, Pinacoteca di Brera), smaltati sopra il fondo d’oro, sono già diventati marmo colorato, terribile come gli occhi del san Pietro avvolto in un panno giallo esuberante accanto al quale il san Giovanni tutto rinsecchito e spoglio pare ancora più larvale e scomposto, e così vicino alle tremule apparizioni di Cosmé Tura in quel di Ferrara.
Ma l’antico risuscitato, Mantegna riesce a concretarlo solo a Mantova, complice Ludovico II Gonzaga e Barbara di Brandeburgo, sua moglie, che gli mettono tra le mani l’occasione: la “Camera picta”, o come dicono i più, sulla scorta del Ridolfi, la “Camera degli sposi”, che lui trasforma nella più eccelsa (eppure concretissima) apoteosi di una famiglia regnante nel secolo senz’altro più bello dell’arte italiana. Sono già qui, in nuce, tutti gli elementi che saranno maturi e perfetti nelle tele dei “Trionfi di Cesare”, compiuti negli anni a venire per il palazzo di San Sebastiano. Ma qui, nella “Camera picta”, i trionfi s’impastano di antico e parlano del moderno senza ricorrere ai paludamenti e alle finzioni en travesti, ma, anzi, trasformando in moderno anche il richiamo all’antichità. Cosa che nell’arte italiana dura ancor meno dell’equilibrio formale del Rinascimento maturo ed è la sostanza del sogno dell’Umanesimo: colmare, cioè, o saturare, la frattura tra passato classico e presente, nella coscienza sincera che questo potesse essere davvero possibile. Perché, in verità, quell’antico di cui narra Mantegna è, alle prime, un mondo ricucito, ristrutturato sopra le vestigia antiche, quelle sognate e trasposte sulle pareti, appunto, della “Camera picta”, dove ai marmi solenni di una Roma improbabile e fascinosa si alternano gli umili laterizi dell’epoca volgare, del lungo medioevo non ancora sanato; e quella casata messa così in primo piano, marmorizzata nel colossale cardinale Francesco e liberata in una sorta di policromia marmorea nella parete che ne ritrae i modi cortesi, umanistici e neo-classici, scioglie i toni araldici che Borso d’Este aveva così gradito sulle pareti del suo palazzo di Schifanoia a Ferrara in uno stupito, naturalissimo sentimento, quasi da colazione en plein air, mentre i pesanti broccati dell’immaginaria loggia vengono tirati e dall’alto, dall’oculo che si apre sul più azzurro dei cieli, qualcuno osa, divertito, spiare. Ma la “Camera picta” è solo la preparazione, come ho detto, all’impresa dei “Trionfi di Cesare”, opera celeberrima quanto oggi consunta dopo il restauro d’inizio Settecento; quasi larve rispetto a quel fulgore che doveva dare il timbro, il carattere a queste tele enormi, così come ci è solo in parte restituito dalle copie che se ne fecero. Un fregio lungo più di 27 metri, concepito e realizzato in un lasso di tempo abbastanza lungo, dal 1488 fino alla morte dell’artista, ma con un intento progettuale preciso e unico nel quale Mantegna realizza a modo suo e col colore un colossale (per i tempi) fregio all’antica, senz’altro abbagliato dal fulgore dei monumenti visti a Roma, stavolta per davvero; e quell’organizzazione coerente delle masse e del procedere dei personaggi, tutti sottoposti alla sua tirannica regia, come non potrebbe discendere dal passo cadenzato dei rilievi dell’arco di Tito e, ancor più, dalla spirale della Colonna Traiana? Qui, però, con la celebrazione dell’antico come passato mitico, s’intuisce già l’incrinarsi della certezza quattrocentesca che carezzava il sogno dell’eterno ritorno, della ciclicità dei tempi, del ricongiungimento ultimo col mito e i suoi eroi. E qui non può essere estranea la figura di Isabella d’Este che con l’antico instaura un rapporto antiquariale, maniaco e collezionistico e che al Mantegna commissionerà alcune delle opere sue estreme intrise di simbolismi mitologici che poco hanno a che spartire con la severa, virile e genuina adorazione di un mondo più che dei suoi gingilli preziosi. Per questo l’ultimo dei suoi sogni umanistici l’artista non l’ha consegnato alla pittura ma all’architettura, alla sua casa, costruita a non molta distanza dalla chiesa albertiana di San Sebastiano, quest’ultima così svisata dagli interventi successivi da conservare poco dell’originaria idea dell’architetto umanista. La casa del Mantegna, al contrario, ha subito una sorte più clemente e ha conservato quella severità e purezza di linee che l’artista aveva immaginato progettandola come un enorme parallelepipedo al cui centro aprire un cortile circolare, o meglio cilindrico. A guardare da lì, dall’interno del cortile, pare di essere sul fondo di un pozzo e si riesce ancora ad immaginarsi umanisticamente misura del mondo, osservando trascorrere il cielo da quella porzione lasciata libera dall’edificio. E la scritta “Ab Olimpo” posta su uno degli architravi del cortile – oltre a creare un orgoglioso paragone con l’arte inarrivabile del greco Fidia – sancisce il punto di vista vero e irrinunciabile col quale l’uomo del Rinascimento intende guardare il mondo, compararlo ed emularlo.
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